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La rivoluzione egiziana

Questo articolo è stato precedentemente pubblicato in inglese l’1 febbraio 2011

Con il propagarsi delle proteste di massa, delle occupazioni delle fabbriche e dell’espansione di indefiniti scioperi generali contro la dittatura di del presidente Hosni Mubarak, la classe lavoratrice sta riemergendo come la forza trainante della rivoluzione egiziana. Pur essendo la copertura di notizie limitata, è evidente che gli scioperi e le proteste stanno travolgendo le città e i centri minori in tutto questo paese di 80 milioni di persone.

La dimostrazione dell’immensa forza sociale della classe lavoratrice ha scosso la classe dirigente ei suoi portavoce nei media ufficiali. Mentre il New York Times ha denunciato che le proteste stanno diventando “aperte lotte di classe”, la CNN ha spiegato che il collasso delle azioni delle compagnie petrolifere statunitensi con investimenti in Egitto è dovuto al timore che “un nuovo governo potrebbe espropriare le loro concessioni demaniali”.

L’aristocrazia finanziaria, tuttavia, teme molto di più della perdita di un giacimento di petrolio, o anche del Canale di Suez, pur fondamentale per il commercio mondiale. Ci sono in gioco questioni politiche cruciali.

La rivoluzione egiziana sta infliggendo un colpo durissimo al trionfalismo pro-capitalista che seguì la liquidazione dell’URSS da parte della burocrazia sovietica nel 1991. La lotta di classe, il socialismo e il marxismo furono dichiarati ormai irrilevanti nel mondo moderno. La storia-come inteso ne “L’istoria dell’umanità non è stata che l’istoria della lotta di classe” (Karl Marx e Friedrich Engels)-era finita. D’ora in poi, le uniche rivoluzioni concepibili per i mezzi di comunicazione sarebbero state quelle “colorate” in anticipo, politicamente preparate e sceneggiate dal Dipartimento di Stato americano, e poi attuate dalle sezioni ricche pro-capitaliste della società.

Questo scenario così compiacente e reazionario è stato polverizzato in Tunisia e in Egitto. La storia è ritornata con vendetta. Quello che sta attualmente avvenendo a Il Cairo e in tutto l’Egitto è una vera e propria rivoluzione, quella vera. “Il tratto davvero incontrovertibile di ogni rivoluzione, come del resto di ogni storia, è l’entrata diretta delle masse negli avvenimenti storici”, scriveva Leon Trotsky, il più grande esperto in materia. Questa definizione di rivoluzione è perfettamente applicabile per tutto ciò che sta accadendo in Egitto.

Questa rivoluzione è solo nella fase iniziale. Le forze di classe scatenate dall’esplosione stanno solo iniziando a definirsi in termini di singole rivendicazioni. I programmi devono ancora essere formulati. Emergendo da decenni di repressione, la classe lavoratrice non ha ancora preparato un suo programma. In questi concitati momenti di lotta in pieno svolgimento, non potrebbe essere altrimenti. Ancora una volta, per citare Trotsky, “Le masse non intraprendono la lotta rivoluzionaria con un piano preparato di ricostruzione sociale, ma con un forte sentimento che non possono più sopportare il vecchio regime ... Il processo politico fondamentale della rivoluzione consiste quindi nella comprensione graduale da parte di una classe dei problemi derivanti dalla crisi sociale, l’orientamento attivo delle masse attraverso un metodo di approssimazioni successive”.

Come sempre nelle fasi di apertura di una convulsione rivoluzionaria, gli slogan che predominano sono di carattere generalmente democratico. Le classi dominanti, temendo l’avvicinarsi del baratro, cercano disperatamente di mantenere quello che possono del vecchio ordine. Promesse di “riforme” escono facilmente dalle loro labbra. Gli strati più alti della società desiderano il cambio solo nella misura in cui esso non minacci la loro ricchezza e status sociale. Ardentemente richiamano alla “unità” di tutte le forze democratiche, sotto il controllo politico, ovviamente, dei rappresentanti della classe capitalista. La personificazione di questa “unità”, almeno per il momento, è Mohamed ElBaradei.

Tuttavia, il tipo di unità democratica proposta da ElBaradei non offre nulla di sostanziale alla classe lavoratrice, ai poveri delle aree rurali e ai giovani scesi in piazza. I bisogni vitali della stragrande maggioranza della società egiziana non si possono realizzare senza il più radicale ribaltamento dei rapporti di proprietà esistenti e il trasferimento del potere politico alla classe lavoratrice.

Il New York Times, in uno dei suoi rari casi di lucidità politica, ha richiamato l’attenzione sul conflitto sociale di base in Egitto: “Il divario crescente tra ricchi e poveri de Il Cairo è stato uno degli aspetti evidenti della vita della città negli ultimi dieci anni-e soprattutto gli ultimi cinque... Dal momento in cui il governo Mubarak ha compiuto passi verso la privatizzazione di più aziende governative, dando il via ad un boom economico per alcuni, i ricchi egiziani sono fuggiti dalla città. Si sono riversati in comprensori recintati e lussuosi con grandi case in stile americano circondate da country club, e la lontananza della loro vita da quella degli egiziani medi è diventata crudamente visibile”.

Ma è questo stato di cose un fenomeno puramente egiziano? La descrizione del New York Times della profonda polarizzazione sociale de Il Cairo potrebbe altrettanto applicarsi a praticamente qualsiasi città del mondo capitalista, Stati Uniti compresi. Si consideri, ad esempio, la situazione di New York. Secondo un rapporto recentemente pubblicato del Fiscal Policy Institute, l’1 per cento più ricco dei residenti di New York ha ricevuto il 44 per cento del reddito totale pagato a tutti i residenti.

In tutto il mondo la disuguaglianza sociale ha raggiunto proporzioni impressionanti. Infatti, secondo alcuni rapporti, la disuguaglianza del reddito negli Stati Uniti è addirittura superiore a quella che esiste in Egitto e Tunisia. Inoltre, in tutta Europa e negli Stati Uniti, i governi stanno esigendo ed attuando massicci tagli alla spesa sociale. Sezioni sempre più ampie della classe lavoratrice vengono risucchiate nella povertà.

I regimi politici esistenti nei paesi capitalisti avanzati, anche se senza dubbio equipaggiati con più sofisticate agenzie di propaganda, sono insensibili e indifferenti al malcontento delle grandi masse, né più né meno del governo egiziano. Solo la settimana scorsa, il presidente degli Stati Uniti ha pronunciato il suo “Stato dell’Unione” omettendo di dire che quasi il 10 per cento della popolazione del paese è senza lavoro. Per Obama, l’indicatore più importante dello Stato dell’Unione è l’"impennata” del valore azionario di Wall Street.

Ciò che sta avvenendo nelle strade de Il Cairo, di Alessandria e in tutto il resto del paese è di importanza storica mondiale. Gli eventi in Egitto rivelano la modalità attraverso la quale il cambiamento sociale accadrà in ogni paese, compresi i più avanzati. Stiamo assistendo in questa antica terra ai primi segni di una nuova epoca di rivoluzione socialista mondiale.

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