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Mattarella “congela” le dimissioni di Renzi da Primo Ministro

Questo articolo è stato precedentemente pubblicato in inglese il 7 dicembre 2016

Il Presidente Sergio Mattarella ha “congelato” le dimissioni del Primo Ministro Matteo Renzi fino a quando verrà adottato il bilancio per il 2017. Renzi aveva presentato le sue dimissioni lunedì sera, dopo che la larga maggioranza degli elettori domenica aveva respinto la sua riforma costituzionale.

Il bilancio è già stato approvato dalla Camera dei Deputati; secondo i media, entro questa settimana potrebbe passare anche al Senato, però questo non è certo.

Cosa succederà dopo l’approvazione del bilancio è da vedersi. Mattarella potrebbe indire un governo di transizione; già si parla dell’attuale ministro delle Finanze, Carlo Padoan, e del Presidente del Senato, Pietro Grasso, come possibili capi del nuovo governo. Dal 2011 al 2013, sotto Mario Monti, un simile gabinetto di tecnocratici ha governato per un anno e mezzo, senza essere legittimato dagli elettori, e ha avviato le misure di brutale austerità che Renzi ha poi continuato.

I partiti di destra, che hanno capeggiato la campagna contro la riforma costituzionale, stanno insistendo su elezioni immediate. Il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo e la Lega Nord stimano che con il “No” del referendum si sia aperta per loro la possibilità di prendere il controllo del governo. Anche Forza Italia, il partito dell’ex premier Silvio Berlusconi, ha chiesto elezioni anticipate.

Lunedì, il Ministro dell’Interno Angelino Alfano ha detto che sono possibili elezioni in febbraio; anche se, a seguito del rigetto della nuova Costituzione non esiste attualmente alcuna legge elettorale valida. Alfano è presidente del nuovo partito “Centrodestra”, che si era separato da Forza Italia tre anni fa per formare un governo con il PD di Renzi.

L’approvazione della legge sul bilancio, che il Presidente vuole Renzi diriga, porta la firma di Bruxelles e Berlino. Come tutte le “politiche di riforma” di Renzi, lo scopo di questo bilancio è quello di ristrutturare le banche del paese, oberate di debiti, come pure l’enorme montagna del debito pubblico, a spese della classe lavoratrice e degli strati più poveri della classe media. Questa politica ha già causato il disastro sociale in ampie fasce della popolazione. La produzione industriale è diminuita del 25 per cento dopo la crisi finanziaria del 2008, mentre la disoccupazione giovanile rimane a quasi il 40 per cento.

Il massiccio rifiuto della riforma costituzionale è stato principalmente un voto contro questa politica. La maggior parte degli osservatori si aspettavano la sconfitta di Renzi, ma prevedeva la vittoria del “No” con un margine molto più stretto; il che si è rivelato essere ben lontano dai risultati del referendum. Con una affluenza alle urne molto alta, del 68 per cento degli elettori, 19, 4 milioni hanno votato contro la riforma costituzionale e solo 13, 4 milioni hanno votato a favore.

Il risultato è stato fortemente influenzato dal livello di disuguaglianza sociale nel Paese. Nel sud povero due terzi degli elettori hanno votato “No”. Delle 20 Regioni, solo tre, relativamente benestanti, hanno votato “Sì": Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna e Toscana.

La scelta del “No” è stata chiarissima tra i giovani elettori di età compresa tra i 18 e i 34 anni; questo strato della popolazione ha votato al 68 per cento contro la riforma e solo il 32 per cento a favore; anche se Renzi aveva cercato di usare la sua giovane età (41 anni) e l’elevata percentuale di donne nel suo governo per appellarsi agli elettori più giovani. I giovani sono tra le principali vittime delle riforme di Renzi; quasi il 40 per cento sono disoccupati, mentre il resto cerca di maneggiare con lavori precari o è alla ricerca di lavoro all’estero.

Nel gruppo di età compreso fra i 35 e i 54 anni, i voti “No” hanno superato il “Sì” al 63 per centro, contro il 37 per cento. Solo tra gli strati più anziani della popolazione oltre i 54 anni, ha predominato il “Sì” con il 51 per cento a favore.

A Roma, Milano, Torino e Bologna il voto del referendum ha rispecchiato la situazione sociale; nei centricittà ha vinto il “Sì”, mentre nelle periferie economicamente trascurate e degradate ha vinto il “No”.

La rivista Spiegel Online ha commentato: “L’alta affluenza al referendum e la linea anti-governo mostra chiaramente soprattutto una cosa: gli italiani sono estremamente infelici con il loro Stato, le loro autorità, la loro vita; e hanno tutte le ragioni per esserlo”. Come in molti paesi, “la globalizzazione economica ha diviso anche la società italiana in una piccola fascia di ricchi vincitori e un grande strato di perdenti”.

I rappresentanti della UE e il governo tedesco sono chiaramente preoccupati per le dimissioni di Renzi, ma allo tempo stesso hanno ribadito che si atterranno al loro corso di stretta austerità. Il cancelliere Angela Merkel ha detto che era “triste” per l’esito del referendum, ma che l’Europa continuerà ad aderire alle sue politiche; aggiungendo: “dal mio punto di vista, continueremo il nostro lavoro in Europa e abbiamo stabilito le priorità giuste”.

Nel mondo degli affari, nel frattempo, ci sono crescenti preoccupazioni che la sconfitta di Renzi potrebbe preannunciare la fine dell’euro e dell’Unione Europea. Ulrich Grillo, Presidente della Federazione dell’industria tedesca (BDI), ha detto che, “il rischio di una nuova instabilità politica accresce il rischio per lo sviluppo economico, i mercati finanziari e l’unione monetaria.”

Il Centre for Economics and Business Research (Centro per la ricerca sull’economia e il commercio del Regno Unito) stima che la possibilità dell’Italia di rimanere nella zona euro nei prossimi cinque anni sia molto scarsa. Secondo questa società di consulenza economica britannica, il referendum ha dimostrato che gli elettori italiani non tollereranno indefinitamente la disoccupazione cronica, i salari stagnanti e l’austerità imposta da Bruxelles che accompagna ora l’adesione all’euro. “Non c’è alcun dubbio: l’Italia potrebbe rimanere nella zona euro per circa altri 5 anni, se fosse disposta a pagare il prezzo di una crescita praticamente zero e un enorme calo dei consumi; ma questo sarebbe chiedere troppo a un elettorato sempre più impaziente. Pensiamo che le probabilità di sostenere questo tipo di politica siano meno del 30 per cento”.

Inoltre, nel Financial Times, Gideon Rachman avverte: “Il progetto europeo si trova confrontato da una pressione senza precedenti. La decisione della Gran Bretagna di lasciare è la prova più evidente di questo fatto; ma, alla lunga, la crisi in corso in Italia potrebbe rappresentare una minaccia ancora più grave per la sopravvivenza della UE; le ragioni per questo sono politiche, economiche e persino geografiche. ”

L’Unione Europea è uno strumento reazionario dei più potenti interessi economici e finanziari europei; essa è responsabile degli spietati attacchi alla classe lavoratrice, la brutale chiusura dei confini contro i rifugiati e il crescente militarismo. In realtà c’è un notevole pericolo che le organizzazioni di destra sfrutteranno la diffusa opposizione contro l’UE per dirigerla verso il nazionalismo reazionario. Il sostegno per l’Unione Europea e le sue politiche di austerità da parte dei socialdemocratici, i sindacati e i loro sostenitori della pseudo-sinistra ha creato un vuoto politico che l’estrema destra sta cercando di colmare.