Italiano

Battuta d’arresto per il governo del Partito Democratico alle elezioni comunali

Questo articolo è stato precedentemente pubblicato in tedesco l’8 giugno 2016 e in inglese il 9 giugno 2016

Le elezioni comunali si sono concluse il 5 giugno con una sconfitta per il Partito Democratico (PD) del premier Matteo Renzi. A Roma è Virginia Raggi, del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, ad avere la migliore chance per la carica di sindaco e non il PD Roberto Giachetti.

A Roma, Milano, Torino e Napoli, i candidati PD non sono riusciti a farsi eleggere al primo turno. In sei delle sette città più grandi, dove dovevano essere eletti i sindaci, si andrà al ballottaggio il 19 giugno, perché nessuno dei candidati ha ottenuto la necessaria maggioranza del 50 per cento più uno dei voti. Domenica scorsa, in 1.274 comuni, circa 13 milioni di elettori sono stati chiamati alle urne.

Le elezioni sono state viste come un barometro delle politiche del governo Renzi. Il primo ministro e i dirigenti del PD hanno risposto alla crisi economica con feroci attacchi ai diritti sociali e democratici della classe lavoratrice. Come il suo omologo social-democratico e amico francese, Manuel Valls, Renzi sta effettuando la deregolamentazione del mercato del lavoro e sta distruggendo tutte le conquiste sociali del dopoguerra. Allo stesso tempo, il governo rafforza l’apparato statale e prepara un nuovo intervento militare in Libia.

La riforma del mercato del lavoro, il “Jobs Act”, la riforma delle pensioni, la legge di stabilità fiscale e la riforma dell’istruzione “Buona Scuola”, che Renzi ha introdotto, hanno ripetutamente provocato rabbiose proteste da parte dei lavoratori e scioperi da parte degli studenti di scuole e università. Ma poiché i sindacati e i gruppi della pseudo-sinistra puntellano il governo Renzi, questa resistenza sociale non trova un’espressione politica progressista.

Gli scarsi risultati ottenuti dai candidati PD e l’avanzamento del M5S di Grillo sono un chiaro segnale di insoddisfazione contro il governo di Renzi. Virginia Raggi (M5S) a Roma ha ottenuto il 35, 3 per cento dei voti, mentre Giachetti, il candidato PD, ha catturato solo il 25 per cento; dietro di lui si è posizionato il candidato del fascista Fratelli d’Italia, con quasi il 21 per cento; il candidato di Silvio Berlusconi, l’uomo d’affari e miliardario Alfio Marchini, si è attestato sull’11 per cento.

Anche la bassa affluenza elettore è un segno di insoddisfazione. I non votanti hanno composto quasi ovunque il gruppo più numeroso. A livello nazionale, una media del 62 per cento degli elettori è andato alle urne, 5 per cento in meno rispetto a precedenti comparabili elezioni. Nelle grandi città, appena uno su due ha votato. A Napoli, l’affluenza alle urne è stata del 54 per cento, a Milano quasi il 55 per cento, a Roma e Torino il 57 per cento.

Dopo l’introduzione delle elezioni dirette dei sindaci, nel 1993, Roma era considerata una roccaforte del centro-sinistra. Fino alla crisi del 2008 sono stati in ufficio Francesco Rutelli dei Verdi e Walter Veltroni dei Democratici di Sinistra, il successore del Partito Comunista Italiano. Nel 2008, Berlusconi sostituì il governo nazionale di Romano Prodi, al quale avevano partecipato Democratici e Rifondazione Comunista. Nell’anno della crisi finanziaria globale, nella capitale, la destra era riuscita a fare attribuire l’ufficio di sindaco all’ex fascista Gianni Alemanno.

Il sindaco uscente, il chirurgo dei trapianti Ignazio Marino (PD), ha sostituito Alemanno nel 2013, quando Roma era nella sua crisi più profonda. La città era di fronte alla minaccia di fallimento. Allo stesso tempo, il pubblico ministero offriva copertura alla cosiddetta Mafia Capitale, una rete di imprenditori mafiosi che hanno corrotto politici e funzionari della città al fine di garantirsi contratti sempre più lucrativi. C’è stata una crescita di potenti reti mafiose, che oggi continuano a estendersi ben al di là di Roma, non solo nella costruzione, la raccolta dei rifiuti e il trasporto pubblico, ma perfino nella gestione dei campi profughi.

Con Marino, il PD ha avuto un sindaco che era pronto ad usare il pubblico ministero per affrontare la malavita mafiosa; ma non è riuscito a progredire molto, perché contemporaneamente aveva aperto le ostilità contro la popolazione lavoratrice. In parallelo agli attacchi alla socialità del governo Renzi a livello nazionale, Marino ha cercato di imporre il peso della crisi finanziaria sui residenti e lavoratori della città; ha tagliato posti di lavoro, aumentato le spese per i commercianti ambulanti e residenti, ha tagliato i fondi per le istituzioni culturali e storiche e le ha rese più costose da visitare e ha cominciato a vendere appezzamenti di terreni pregiati.

Nel mese di ottobre 2015, il governo nazionale ha ritirato il suo sostegno a Marino; egli è stato costretto a dimettersi in mezzo a lunghe settimane di proteste e scioperi da parte degli studenti delle scuole e degli universitari contro la riforma di Renzi. La motivazione fornita è stata che egli avrebbe pagato due fatture personali, del valore di 20.000 €, con una carta di credito appartenente alla città.

Nelle ultime elezioni comunali, Renzi e il PD hanno cercato di rimanere nel sottofondo e di presentare candidati con poca interazione con le tradizioni e la politica del PD stesso; ad esempio Roberto Giachetti, originariamente un membro del Partito Radicale, che ha fatto la campagna a favore del diritto all’aborto e contro la Chiesa cattolica negli anni ‘70; a Milano, il PD ha scelto Giuseppe Sala, che non ha fatto campagna come politico, ma come manager e organizzatore del World Expo 2015.

Come si è visto questa strategia non è sta vincente e il PD ha subito una battuta d’arresto; a Milano, Sala, con il 41, 7 per cento dei voti è praticamente testa a testa per il ballottaggio con Stefano Parisi (40 per cento) della berlusconiana Forza Italia. Anche la Lega Nord ha sostenuto Parisi, che è stato in grado di garantire la vittoria persino in alcuni quartieri popolari che tradizionalmente votano a sinistra. A Roma, Giachetti si è garantito solo vittorie nel centro della città e nei quartieri ricchi. Solo uno su quattro elettori di Roma ha sostenuto il candidato PD.

Anche a Torino, città dominata dalla casa automobilistica Fiat, il sindaco PD Piero Fassino, un ex funzionario PCI e segretario generale della Sinistra Democratica, non è stato in grado di vincere le elezioni al primo turno; con il 42 per cento dei voti si troverà in ballottaggio con l’imprenditrice Chiara Appendino, del Movimento Cinque Stelle, che ha il 31 per cento dei voti. Dopo il risultato, Fassino ha ammesso, “Il risultato dà espressione alla crisi sociale delle grandi città: malcontento, insoddisfazione, alienazione”.

A Napoli, il PD non è arrivato nemmeno al ballottaggio. L’attuale sindaco De Magistris di Italia dei Valori ha vinto il 42, 6 per cento, contro l’uomo d’affari Giovanni Lettiari di Forza Italia, con il 24 per cento, candidato di centro-destra. Dal 2011 il PD di Renzi non riesce a posizionarsi meglio del terzo posto; a quel tempo, De Magistris, che faceva campagna in qualità di pubblico ministero combattente contro la palude della corruzione, scioccò il PD e vinse.

Le elezioni hanno messo in chiaro due cose: la popolazione è alla ricerca di un’alternativa, ma non c’è nessun partito che difende gli interessi dei lavoratori.

A beneficiare di questa situazione è il M5S, che fa campagna come partito che combatte la corruzione e presenta giovani modernizzatori di successo, che non provengono dalla palude dei partiti tradizionali. Il secondo turno di votazione a Roma è poco probabile che porti un risultato a sorpresa, e Virginia Raggi del M5S sarà probabilmente in grado di emergere come sindaco della capitale.

Questo è stato un “risultato storico”, ha detto Beppe Grillo, dopo il voto. Dopo la morte del suo compagno di partito Gianroberto Casaleggio nel mese di aprile, Grillo aveva dichiarato che si sarebbe ritirato dalla politica e che sarebbe tornato al palcoscenico; il suo partito dovrebbe essere in grado di farcela sotto la nuova guida di un comitato di cinque persone. Ma ora, dopo il successo elettorale a Roma, il comico di una volta avrebbe l’intenzione di rimettersi nuovamente in gioco e di capitanare il M5S a diventare un vero partito politico e a far dimenticare la sua immagine di semplice movimento di protesta.

In Italia le prossime elezioni parlamentari si svolgeranno al più tardi nella primavera del 2017. Grillo ha detto al quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung, poco prima delle elezioni comunali, : “A Roma, è tutto in palio. Se vinciamo, non ci sono più ostacoli verso la vittoria a livello nazionale”.

Ma il M5S non è in alcun modo un’alternativa progressista; esso propone un programma nazionalista e borghese, che difende gli interessi delle piccole e medie imprese e si erge contro i lavoratori e gli immigrati. (Vedi: “Il significato politico del Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo"). In nome della sua offensiva contro “gli sprechi in politica, ” il M5S è pronto a tagliare decine di migliaia di posti di lavoro del servizio pubblico. A livello europeo, collabora con l’UKIP di Nigel Farage, e condivide la sua posizione anti-europea. Per distogliere l’attenzione dal peggioramento della crisi del capitalismo, il M5S chiede anche il ritorno alla lira, al posto dell’euro.

In politica sociale, Grillo chiede l’introduzione del reddito di cittadinanza, sul modello del Hartz IV dell’assistenza sociale tedesca. Il M5S vuole offrire pagamenti fino a 780 € al mese, il livello ufficiale di povertà, ad ogni italiano, a condizione che la persona si registri in un centro di lavoro e che accetti una delle prime tre offerte di lavoro che riceve; altrimenti la persona perderà tutti i diritti al sostegno dell’assistenza sociale. La Raggi si è espressa a favore di questo modello. Sarebbe un regalo alle grandi società, che avrebbero accesso a un ampio pool di manodopera a basso costo.

La posizione del M5S circa la crisi del fallimento di Roma è che le finanze della città non devono essere salvate perché questo porrebbe la “casta”, ossia l’élite politica, ad essere “fuori dalla linea di tiro”. Virginia Raggi si sta preparando a risolvere la crisi finanziaria di Roma a spese dei lavoratori del settore pubblico, i cui salari essa intende decimare. in nome della lotta contro gli sprechi.

In marzo Raggi ha detto a Fatto Quotidiano che le aziende di trasporto pubblico sono state usate come se fossero un bancomat per anni. “Abbiamo così tanti dipendenti che non sono affatto usati, ai quali noi paghiamo gli stipendi per non fare nulla”, ha dichiarato Raggi, deliberatamente usando il termine “per non fare nulla”; si tratta di un riferimento alla chiamata alle armi contro i “Fannulloni”, i “predatori del non lavorare”, che è stato utilizzato per condurre attacchi contro operai e impiegati del settore pubblico.