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La rinascita delle ambizioni imperialiste italiane in Libia

Questo articolo è stato precedentemente pubblicato in inglese il 10 marzo 2011 e in tedesco il 16 marzo 2011

La nave da guerra italiana Libra è stata ormeggiata nel porto di Bengasi, Libia, il 7 marzo. La sua presenza è la logica conseguenza di calcoli geostrategici da parte della classe dirigente italiana per garantire che l’Italia mantenga un suo ruolo di primo piano in Libia e che venga soffocata l’opposizione delle masse alle politiche del libero mercato.

Nel giro di pochi giorni, il governo Berlusconi ha rinnegato il suo forte sostegno al regime del colonnello Gheddafi. Inoltre, si sta preparando per un intervento militare nel tentativo di affermare il proprio controllo imperialista, sotto l’apparenza di una missione “umanitaria”.

Nell’agosto del 2008, dopo oltre mezzo secolo di tensioni diplomatiche tra la Libia e l’Italia, ex potenza coloniale in Libia, Berlusconi forgiava un’alleanza con Gheddafi sulla base di un Trattato di Amicizia e Cooperazione. Questo trattato stabiliva i termini di una stretta relazione economica tra i due Paesi e di controllo delle migrazioni. Inoltre specificava che l’Italia pagasse 5 miliardi di euro in risarcimenti per i 32 anni durante i quali ha subordinato la Libia alla brutale dominazione coloniale (1911-1943) che risultò nella decimazione della popolazione del paese africano.

Il trattato è stato firmato a Bengasi, la stessa città dove oggi il Consiglio Nazionale Libico ha istituito una coalizione borghese di opposizione anti-Gheddafi guidata dall’ex ministro della Giustizia, Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil, riconosciuto come entità politica dal governo Berlusconi il 28 febbraio 2011 .

La diplomazia americana ha preso nota del trattato del 2008. In un cable WikiLeaks del giugno 2009, è stato rivelato che, secondo l’ambasciata americana a Roma, “Berlusconi ha proseguito la politica Italiana di espansione dei rapporti con la Libia, in gran parte al fine di arginare l’ondata di migrazione irregolare dalle coste libiche, ma anche per ottenere vantaggi per l’accesso alle riserve di petrolio per le imprese italiane, soprattutto ENI”. ENI è una multinazionale petrolifera italiana.

Il cable continua: “In seguito al trattato di amicizia Italia-Libia del 2008-che impegna la Libia a misure più dure per scoraggiare i migranti irregolari dalle proprie coste italiane, ma che anche prevede 5 miliardi di dollari in aiuti per lo sviluppo-il leader libico Gheddafi farà una visita ufficiale, prima nella storia, a Roma il 10-12 giugno, poco prima della visita di Berlusconi a Washington”.

La visita di Gheddafi ha avuto luogo. Nel giugno 2009, il leader libico si presentò all’aeroporto militare di Ciampino mostrando una foto di Omar al-Mukhtar, il leader della resistenza libica contro i colonizzatori italiani, che fu catturato e impiccato dai fascisti di Mussolini nel 1931. Questa è stata la prima visita ufficiale di Gheddafi in Italia.

In quell’occasione, Berlusconi ha parlato di “una vera e propria partnership tra noi e la Libia con una forte collaborazione in molti settori a partire da una comune presa di posizione sulle vicende internazionali e da una stretta collaborazione nel settore economico.” Ha detto ai giornalisti degli ultimi 15 anni in cui ha “avuto modo di incontrare più volte il leader e di legarmi a lui da una vera e profonda amicizia. Nel leader riconosco una grande saggezza”.

In un altro cable, una settimana dopo, l’ambasciata Usa a Tripoli avvertiva che “i prezzi del petrolio stanno permettendo alla Libia di pressare per contratti più vincolanti a lungo termine con i produttori esteri di petrolio e di gas. Una proroga di 25 anni per la società italiana Eni North Africa BV, che ha comportato una provvigione considerevole di bonus e drasticamente ridotto la quota di produzione della società, è stata recentemente ratificata dopo lunghe trattative. Il potenziale impatto dell’affare Eni è significativo”.

L’Italia vede la Libia come un importante partner economico. La sua economia è profondamente dipendente dal petrolio e dal gas della Libia. Circa l’80 per cento dell’energia in Italia viene importata, il 25 per cento è fornito dalla Libia. Oltre alle banche e all’industria energetica, i fondi del petrolio libico hanno salvato l’industria italiana tessile, dell’automobile, dell’edilizia, della difesa e aerospaziale, così come qualche squadra di calcio.

Ora Gheddafi si trova di fronte una opposizione che minaccia il suo regime. Tuttavia ci sono due distinte forze socio-politico che operano all’interno dell’opposizione. Da un lato, vi è l’opposizione popolare alle politiche pro libero mercato di Gheddafi e alla repressione del dissenso politico da parte del regime.

Dall’altro, ci sono ex alti dirigenti del regime di Gheddafi, tra i quali l’ex ministro della Giustizia, Mustafa Abdel Jalil e l’ex-ministro degli Interni generale Abdul Fattah Younis al Obaidi, che hanno abbandonato il regime dopo le proteste di massa iniziate il mese scorso. Queste forze stanno proponendosi come nuovo potere, chiedendo il sostegno, sia politico che militare, dei governi imperialisti degli Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Italia.

Nella speranza che il colonnello riacquisisse il controllo del paese, il governo italiano ha preso inizialmente una posizione di prudenza. Tuttavia, una volta chiaro che la classe lavoratrice libica stava guadagnando terreno e quindi i giacimenti petroliferi rischiavano di cadere sotto il controllo dei rivoltosi, il governo Berlusconi ha cercato di stringere nuove relazioni con sezioni della borghesia, per poter essere in grado di garantire il proseguimento delle relazioni economiche a beneficio del capitale italiano.

Questo è ciò che sta dietro la sospensione del trattato di amicizia dichiarata dal ministro degli Esteri italiano Franco Frattini il 28 febbraio . L’agenzia ANSA ha riferito che Frattini è stato molto specifico sul fatto che Gheddafi non era più in controllo dei giacimenti petroliferi e che “l’Italia ha contatti con il nuovo Consiglio Nazionale Libico”.

Ci sono dirette implicazioni militari dietro questa decisione. Il trattato stipulato nel 2008 stabiliva un accordo di non aggressione tra i due paesi. Ora l’Italia si sta unilateralmente tirando fuori, sapendo che, data la sua posizione strategica nel cuore del Mediterraneo e appena a nord della Libia, l’azione internazionale contro la Libia richiede il coinvolgimento italiano.

L’Italia si appresta a svolgere un ruolo importante in Libia e nell’intera regione, nel tentativo di contrastare la sua profonda crisi economica e la minaccia che le proteste popolari possano espandersi dal Nord Africa verso l’Italia e l’Europa.

Sabato scorso, il governo Berlusconi ha annunciato che si sarebbe adeguato ad una decisione dell’Unione Europea di congelare i beni libici in Italia. Tuttavia, dato il ruolo di questi asset nella finanza italiana, il governo italiano sta procedendo con cautela. Secondo il Wall Street Journal, la decisione non riguarda le “attività della Banca Centrale Libica e la Libyan Investment Authority [LIA], che rappresenta i fondi sovrani del paese, e che entrambe possiedono quote in diverse importanti società italiane”.

Lia, controlla il 7, 5 per cento di UniCredit e il 2 per cento del colosso di difesa e aerospazio Finmeccanica, oltre a quote importanti in Fiat, Eni e perfino nella Juventus. La sua infusione di capitale nel sistema bancario italiano ha evitato un disastro finanziario in seguito al crollo di Lehman Brothers nel settembre 2008.

Ma i problemi finanziari sono ben lungi dall’essere risolti. Il Financial Times riporta che il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi sta esortando “le banche italiane a rinforzare i propri bilanci prima che vengano eseguiti gli stress test europei questa estate”. UniCredit, Intesa e Mps sono tra le banche europee più sottocapitalizzate e dovranno ottenere ulteriori fondi per conformarsi alle regole bancarie di Basilea III.

Inoltre, alla recente conferenza del Partito Popolare Europeo (PPE) a Helsinki, Berlusconi è stato molto esplicito quando ha parlato di un cambiamento “come quelli avvenuti in Tunisia ed Egitto verso una democrazia che consenta di mantenere la relazione di preminenza per la nostra economia”. Più specificamente, ha lanciato l’idea di un nuovo Piano Marshall di 10 miliardi di euro “per tutti i paesi che stanno compiendo questo cambiamento”.

Fasce della classe dirigente italiana, come i loro omologhi americani e europei, vedono l’opzione militare con cautela. Non ne sono contrari in linea di principio, tuttavia temono ripercussioni nelle relazioni internazionali, dato il crescente grado di rivalità in una economia mondiale in profonda crisi. Inoltre, un intervento militare potrebbe liberare l’intero potenziale di una rivolta della massa lavoratrice araba contro una storia di soggiogamento imperialista di secoli.

Termini come sforzi “umanitari” stanno riemergendo, nel tentativo dei politici imperialisti di mascherare ipocritamente il carattere imperialista dell’intervento che stanno pianificando.

La “sinistra” italiana, che sostiene i piani di intervento, è perfettamente fluente in questo tipo di linguaggio. L’ex primo ministro Massimo D’Alema, figura di spicco del Partito Democratico ed ex leader del Partito Comunista Italiano (PCI) di retaggio stalinista, ha dichiarato il suo incondizionato appoggio alle ambizioni imperialiste del governo Berlusconi: “In momenti come questi una forza di opposizione deve individuare gli obiettivi e spingere il governo ad agire”.

Nel 1999, quando copriva la carica di primo ministro, D’Alema ha autorizzato la NATO ad utilizzare lo spazio aereo italiano contro la Serbia durante la guerra del Kosovo. Era la seconda volta dai tempi della Seconda Guerra Mondiale (la prima fu la guerra del Golfo del 1991) che l’Italia partecipava ad una offensiva militare. Anche questo fu considerato uno sforzo “umanitario”.

Secondo Nichi Vendola, leader di Sinistra Ecologia Libertà, l’obiettivo finale è la cacciata di Gheddafi. Vendola dice che “siamo grati al Presidente Napolitano per aver raccontato un’altra Italia, nemica di Gheddafi e amica del popolo libico” ed è pronto a legittimare il Consiglio Nazionale Libico, un gruppo eterogeneo di ex-ministri e funzionari di Gheddafi, fintanto quest’ultimo sia estromesso.

Il giorno dopo l’arrivo della nave da guerra italiana nel porto di Bengasi, il quotidiano di Rifondazione Comunista, Liberazione, ha invocato “diplomazia, non bombe”. Secondo l’organo dell’ “opposizione”, “Ciò che servirebbe è un’iniziativa forte dell’ONU, sostenuta da tutta la comunità internazionale per una soluzione negoziata che scongiuri la guerra civile e avvii la democratizzazione del Paese”.

Dietro queste vuote parole contro la guerra e la retorica “anti-capitalista”, Rifondazione dà il suo pieno appoggio alla diplomazia come fondamentale strumento dell’imperialismo. Nelle parole di Lenin, organismi come le Nazioni Unite non sono altro che “una banda di ladri”. La storia dell’imperialismo degli ultimi dieci anni in Iraq e in Afghanistan, con le centinaia di migliaia di vittime, è sufficiente a comprendere il ruolo delle Nazioni Unite come facilitatore internazionale degli interessi imperialisti. Per non parlare del decennio degli anni‘ 90, con il Rwanda, l’Iraq, la Serbia, il Kosovo, il Sudan, per citarne alcuni.

Quello che tutte le “sinistre” condividono è il rifiuto della mobilitazione indipendente della classe lavoratrice per la lotta per il potere in Libia, come lancio di una lotta per la creazione degli Stati Uniti Socialisti del Medio Oriente e del Maghreb.